Succede che un professore dell’università di Firenze proponga un progetto per un
assegno di ricerca – serissimo – incentrato sulla
tracciabilità della filiera del latte di pecora e sul suo utilizzo per la produzione casearia. Il titolo è un po’ tecnico ma rende bene l’idea: «
Dalla pecora al pecorino,
tracciabilità e rintracciabilità di filiera nel settore lattiero
caseario toscano». Fin qui nulla da dire, si tratta di un tema di
estrema rilevanza per la Toscana, terra che, da Pienza a Siena, da
Firenze a Grosseto, produce un ottimo formaggio di pecora.
Però, a leggere la traduzione in inglese del progetto, pubblicata sulla
stessa pagina, ci si rende conto che la rilevanza si sposta
in un altro settore,
sempre importante e vitale e, diremmo, universale, sul quale seriosi e
competenti giovani studiosi sarebbero forse anche più lieti di
impegnarsi: «’From sheep to Doggy Style’ traceability of milk chain in
Tuscany».
E qui qualcosa non torna, perché in inglese il “doggy style” è quella
posizione dell’amplesso che i cinesi chiamano “l’abbraccio della tigre”,
gli indiani “l’assalto del lupo”, e che noi chiamiamo, con molta meno
fantasia, “la pecorina”.
Non ci sono molte possibilità di sbagliarsi: se su google si mette “
doggy style”
ci si fa una cultura, ma certo non sul formaggio, e neppure sulla
mungitura dei simpatici e mansueti animali lanosi. Ma perché il
professore in questione non ha usato l’esistente “pecorino”, parola che
il New Oxford American Dictionary definisce “an Italian cheese made from
ewes’ milk”?
Perché ha tradotto in un modo che si può spiegare solo con l’intervento birichino di google translator? E perché il
MIUR,
che pubblica tale avviso, non ha pensato di controllare ciò che rende
pubblico e avvalla? E come si dovrebbe sentire un giovane ricercatore
che sa che il suo lavoro verrà valutato da un sistema che presenta
questi, chiamiamoli così, goliardici svarioni? E che dire della
Commissione europea,
che ha pubblicato pure lei, senza tanti problemi, il bando nella sua versione anglo-porno? Troppe domande, che rimarranno, temo, tutte senza risposta.
Resta il dubbio di che cosa possa pensare un
giovane agronomo straniero,
di madre lingua anglosassone – ma non è neppure necessario che lo sia –
quando legge di un progetto di ricerca che tratta di pecore e ipotizza
utilizzi quanto meno originali dei suddetti animali. Chissà, magari
pensa che con questi italiani, non si sa mai, c’è anche da divertirsi…
Ora, senza volere calcare sul ridicolo, ma prendendo sul serio il progetto, vengono alcune domande al volo:
- sono previste prove pratiche per valutare la competenza dei candidati e
delle candidate? (anche se dubitiamo che, con queste premesse, vi siano
molte domande di ricercatrici, giustamente messe sull’avviso dal
titolo);
- si tratterebbe di prove pubbliche e, se sì, vietate ai minori?
- verrà prevista una VQR (valutazione della qualità della ricerca) al
termine del progetto e se sì, chi farà parte della commissione? Rocco
Siffredi? Platinette? Oppure una pecora in persona?
- Quale si ritiene possa essere l’impatto di un simile progetto, sul piano della credibilità del
sistema di ricerca italiano, se esso viene tradotto pensando di stare davanti a youporn invece che davanti ai testi sacri dell’agronomia italiana?
Viene da piangere, ma non si può fare a meno di ridere…
Piero Graglia
fonte: ilfattoquotidiano.it